Niente può sfuggire da un buco nero? Come nasce questa teoria?

Il termine “buco nero” è stato coniato dal fisico John Archibald Wheeler. L’aggettivo “nero” deriva dal fatto che non può emettere luce. Il fatto che nessuna particella che vi fosse catturata possa più riemergere (nemmeno i fotoni) è la ragione del termine “buco”.
La caratteristica distintiva dei buchi neri è la comparsa di un orizzonte degli eventi attorno al baricentro della loro massa: spazio geometricamente sferico e chiuso (con apparente superficie materiale rispetto ad osservatori esterni) che ne circonda il nucleo massiccio, delimitando la regione spazio-temporale dalla quale relativisticamente non può uscire o venir emesso alcun segnale né alcuna quantità di materia (eccetto la teorica Radiazione di Hawking), quindi può solo esser raggiunta da altri osservabili e attraversata nella sua direzione, non in senso opposto. Questo impedimento ad emissioni e fuoriuscite produce il costante mantenimento o un potenziale aumento del contenuto del buco nero che, in lunghissimo periodo, potrebbe venir destabilizzato solo dalla citata radiazione quantistica ipotizzata dal notissimo fisico Stephen Hawking.
Nel 1915 Albert Einstein formula la teoria della gravitazione, che va a riscrivere quella di Isaac Newton. Per Newton la gravità crea un campo simile a quello prodotto da un magnete: per lo scienziato inglese questo campo fa sì che la Terra eserciti su una mela o sulla Luna una “forza” che le attira. È un fatto normale: tutti i corpi che possiedono una massa esercitano tale forza. Einstein la pensa diversamente: la gravità non è un campo ma una proprietà, ossia una caratteristica dello spazio stesso. Afferma che tutti i corpi massicci – tutti, dal Sole fino a uno spillo – curvano lo spazio attorno a se stessi. Per avere un’idea di ciò che significa basta pensare a una palla appoggiata su un materasso: deforma la superficie su cui poggia e scorre. In questo esempio la deformazione avviene in due dimensioni: nella realtà immaginata per la prima volta dallo scienziato tedesco la deformazione dello spazio si realizza in tre dimensioni. Un effetto un poco più difficile da visualizzare.
La Relatività generale ipotizza anche che un oggetto sufficientemente grande, come può essere una stella massiccia, può collassare su se stesso fino a concentrarsi in un punto a densità infinita. Quel punto è chiamato singolarità. Buco nero al contrario. La singolarità deforma così pesantemente lo spazio attorno a sé che neppure la luce – se vi passa sufficientemente vicino – può uscirne. E così siamo in pratica arrivati a immaginare un buco nero. Robert Oppenheimer, già nel 1939, lo aveva capito molto bene e lo aveva descritto in un lavoro molto importante.
Nel 2015 Stephen Hawking ha elaborato una nuova soluzione matematica al paradosso, da lui considerata quella definitiva e pubblicata nel gennaio 2016, secondo cui il buco nero conserva sempre l’informazione, pur cancellandola, in parziale deroga del teorema no-hair: alcune particelle lascerebbero un’impronta olografica a due dimensioni sull’orizzonte degli eventi, in questo modo l’informazione seppur parziale e caotica, sopravvive e torna indietro con la radiazione, e non sono violate né la relatività generale, né la meccanica quantistica o la legge di conservazione dell’energia. Insieme a Penrose, nel 1970, pubblica un lavoro che dimostra come l’Universo sia nato da una singolarità.
Grazie a una serie di articoli rivoluzionari, i fisici teorici sono ormai vicinissimi alla soluzione del paradosso dell’informazione dei buchi neri, hanno dimostrato che dai buchi neri può fuggire qualche informazione. Secondo gli studi svolti l’informazione può sfuggire a un buco nero e se ci saltassimo dentro, non saremmo spariti per sempre ma una particella dopo l’altra, riemergerebbero le informazioni necessarie per ricostituire tutto il nostro corpo.

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